Ciò che è accaduto tra marzo 2020 e oggi, questo oggi in cui scrivo seduto al mio scrittoio, sarà un giorno giudicato memorabile; questi accadimenti, tutti (nessuno di essi escluso, da ciò di positivo a ciò che di più perverso possiamo immaginare), saranno degni di essere ricordati; di più io credo, non ne sono certo, non ho prove di questo che sto per dire, ma credo fortemente che questi fatti produrranno narrazioni e racconti bellissimi. Ci sarà gente che si commuoverà, piangerà, proverà raccapriccio e immedesimazione rispetto a ciò che noi ora concretamente viviamo ogni giorno. Si produrrà della bellezza, il nostro dolore produrrà bellezza, la nostra ansia, le nostre patologie psicologiche, i malati intubati proni, i morti sepolti senza un vero funerale, le persone estremamente sole nei loro letti, o nelle loro case, i ragazzi nelle camerette a cercare di studiare, i rider che ci hanno portato i cibi, i medici, gli infermieri, coloro che hanno negato il virus, coloro che si sono ribellati alla dittatura sanitaria, ognuna di queste realtà, lungi dall’essere nel tempo che verrà ancora concreta e vivente, ma morta e passata, produrrà bellezza, produrrà un canto, un romanzo, una saga, qualcosa di enorme e che trascende le nostre semplici vite: tutto questo male, l’enormità reale che noi viviamo ogni giorno, sarà declinato in una bellezza che lascerà il lettore o l’ascoltatore o lo spettatore (come si fruirà l’arte tra qualche secolo?) con il desiderio impellente, il bisogno vero e proprio di voler vivere la stessa cosa che noi stiamo vivendo. 

© Foto di Alberto Gangemi

Saremo mitologia, saremo come gli Achei e i Troiani: nessuno quando legge l’Iliade pensa ai reali bisogni, dolori, sofferenze, meschinità di Ettore o Achille, ma vuole essere loro, vuole immedesimarsi in quella vita per quanto sanguinosa e soggetta alla forza del destino: ognuno di noi, ogni lettore che si avvicini ai versi di Omero, desidera essere uno di loro: desideriamo morire come Ettore, desideriamo che il figlio nel giorno della nostra morte ci venga messo in braccio dalla nostra moglie amatissima e che il figlio non ci riconosca e pianga e si spauri di noi fino a quando non ci togliamo l’elmo, desideriamo che il sorriso dell’infante riempia la nostra esistenza prima della morte orribile, desideriamo anche che il nostro corpo venga vilipeso e trascinato lungo le mura di Troia, abbiamo bisogno di sentirci quello, perché profondamente sentiamo in quelle parole una bellezza struggente. Così accadrà che qualcuno desidererà essere ciò che qualcuno di noi è stato, perché la memorabilità del nostro essere stati qui e ora, una minima e pure insignificante esperienza, che se ci pensate cosa fu la vita di Ettore se non la tipica vita di un soldato in una guerra?, si farà bellezza. 

Nel tempo, in quel tempo che sarà, uno scrittore o un artista produrrà questo primo pensiero, anzi sarà la prima cosa sui cui ragionerà: le parole sono cambiate, che gli aggettivi sono cambiati, e se cambiano le parole si cambia anche il paradigma. Fino a oggi noi diciamo avere una vita privata come sinonimo di avere una vita intima. La mia vita privata è la mia vita intima. Questo che è accaduto ora, che sta accadendo adesso, modifica questi aggettivi, modifica la densità di queste specificazioni. La mia vita privata e la mia vita intima non sono la stessa cosa. 

© Foto di Alberto Gangemi

Privata tornerà a indicare il senso di mancanza, di estraneità, di ciò che non è più che l’aggettivo contiene nel suo etimo; ora noi sappiamo cosa è la vita privata: il non muoversi, il non poter uscire vedere, abbracciare, baciare, fare sesso, amare, essere prossimo a qualcuno, ma anche solo il sedersi a un tavolo e prendere un caffè, o mangiare al bar in pausa pranzo. La vita privata è divenuta questa, e così la vita intima ha acquistato un altro significato, si è come sciolta dall’essere la semplice rappresentazione di ciò che accade dentro di me, e che nessuno conosce, e si è concretizzata come una spora nel punto di profondo del mio corpo; come se fosse la scoperta di uno scavo geologico profondissimo, così nascosto che ne avevamo  perduto la consapevolezza.  

Questa vita intima ha a che fare con il nostro essere creature, ha a che fare con la creaturalità, e la creaturalità ha che fare con la morte; con la nostra morte, non la morte delle persone care, non il semplice dire “siamo tutti morali”, questa è la finitudine: che l’universo, le galassie, il sistema solare, i pianeti, la terra, gli animali, le piante, gli uomini e, infine, “Io” siano destinati a morire è cosa così certa che pare ironico anche affermarlo; ma qui a interessarmi è la mia morte: la mia vita intima schiude la visione della mia morte, la rende irrimediabilmente concreta; nella mia vita intima non solo io mi scopro morente, ma mi scopro morto, in procinto di morire, pronto a morire, ecco perché scaccio la mia vita intima, la silenzio, e la confondo con la mia vita privata. È chiaro, quando dico «È la mia vita privata, lasciatemi stare» vorrei dire «È la mia vita intima, non potete entrare nella mia mortalità, l’esperienza della mia mortalità è solo mia».

© Foto di Alberto Gangemi

In questi mesi di chiusura sono dimagrito, pesavo 73 kg, ora sono 60 kg scarsi, certe volte 59.7kg, massimo 60.8, ogni giovedì mattina mi alzo, vado in bagno e, prima di mettere sul caffè per la colazione e di bere un bicchiere d’acqua, mi peso. Tolgo i pantaloni del pigiama e la maglietta e mi peso. Non avrei più bisogno di farlo, di pesarmi ogni settimana, ma lo faccio, continuo a compiere un atto che non ha senso se non nella sua ripetitività. È stato il pesarmi, ogni giovedì, ogni settimana, a dirmi che il tempo passava, che il giorno era giorno, e che ci ne sarebbe stato un altro domani, fino a quando sarebbe tornato nuovamente giovedì e io mi sarei pesato, è stato il pesarmi, il mio diminuire a farmi capire che non era solo una circolarità il tempo, ma che in qualche modo avanzavo nei giorni, negli anni. Era una lenta e testarda forma di erosione; certo  adesso che potrei finirla di pesarmi, e poi anche smettere di mangiare meno. Questa perdita di peso è legata strettamente alla mia vita intima,  cerco di aderire completamente alla mia vita intima, a quell’essenza di mortalità, a quello strato di mortalità che è il segreto del nostro essere creature. È come il levigarsi alla intemperie delle montagne o dei sassi nei ruscelli: il lento consumarsi per giungere al centro di ciò che si è. Cosa siamo quando ci riduciamo fino alla nullità, fino a quando arriviamo al centro segreto della nostra vita intima, quando l’esplorazione delle nostre profondità giunge infine al fondo?

© Foto di Alberto Gangemi

La gatta della nostra famiglia, Lucilla, questo è il suo nome, è morta durante la chiusura. Si è ammalata, una insufficienza renale gravissima, e nel giro di pochi giorni è morta. Abbiamo provato a ricoverarla, ma non c’era nulla da fare così l’abbiamo riportata a casa, perché volevamo morisse con noi.  Così una notte mi sono alzato e l’ho vista che si era spostata dal suo cuscino, posto sul divano nel lato sinistro, verso il lato destro.  Così mi sono avvicinato per toccarla; un sussulto indicava che era ancora viva: sentivo una vita flebile priva di forza; era proprio come una bava, una luminescente bava che stava nel suo corpo, qualcosa che io percepivo al tatto, ma che non potevo vedere: era il soffio, l’ultimo soffio che ancora risiedeva in lei. 

Così l’ho presa in braccio, e ho avuto un pensiero e mi sono chiesto: «Quanto pesa Lucilla, dopo tutta la malattia, dopo i digiuni, la perdita dei liquidi, dopo che si è svuotata di tutto, dopo che di Lucilla è rimasta ora solo la vita intima, quella vita poco prima della morte?». Perché la vita intima è la morte: siamo nella nostra intimità poco più di morte, e così mentre era in braccio a me, l’ho tenuta e accarezzata, e sono salito sulla bilancia con lei. La bilancia diede il mio  peso,  come se Lucilla non fosse in braccio. La vita intima di Lucilla era così leggera da non poter essere percepita dalla mia bilancia. Così pensai che quel filo di bava, che è – infine – la vita intima ovvero la nostra morte prima di morire, fosse senza peso, fosse aria, fosse luce. Presi Lucilla e la misi nel suo cuscino, lei con uno sforzo si mise nella sua posizione, la stessa con cui la ritrovammo cadavere la mattina, appena svegliati. 

Era  domenica, una luminosa domenica e strana, e decidemmo di mettere il suo corpo in una scatola di scarponcini abbastanza grande da contenerla e aspettare il servizio chiamato affinché portasse il corpo di Lucilla all’inceneritore. Quando suonarono alla porta, io presi la scatola con il corpo, che si era fatta incredibilmente pesante. Oggi nel ricordo di quel momento non mi spiego come sia possibile: la leggerezza aerea di quel corpo poche ore prima di morire, e ora il peso del corpo morto. 

Nella discrasia di percezione, nell’illusione di leggerezza, si cela la vita intima, la vita che desideriamo scoprire: quel filo di morte, che innerva la nostra esistenza, è la nostra vita intima; e spero qualcuno un giorno la canti, declinando la bellezza che possediamo vivendo e morendo.


Il brano di Demetrio Paolin è contenuto nel libro In questo luogo astratto della storia. Corpo fragile, corpo glorioso, corpo perduto, curato da I.Cannas e  M. De Simone, Nicomp L.E Editore.  Nei giorni dal 30 luglio al 1 agosto presso il Monastero di Fonte Avellana si terrà il   convegno in cui artisti, psicanalisti, performer, fotografi, scrittori ragioneranno sugli interrogativi posti nel  volume. Per informazioni e iscrizioni: [email protected] opppure [email protected]

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