Francesco Ursia. Questo nome e questo cognome potrebbero suscitare nel lettore la stessa reazione che Don Abbondio ha nel leggere il nome di Carneade, ovvero chiedersi: “Chi era costui?”. Così io confesso la mia istintiva simpatia per questo personaggio, di cui sappiamo ancora poco, ma che, anche con quel poco, potrebbe essere uscito dalla pagine di Gabriel Marquez o di un altro scrittore sudamericano. Francesco Ursia è professore di lettere e filosofia a Catanzaro, dove esercita la professione di avvocato. In quel periodo a Catanzaro conosce una forte presenza di patrioti e murattiani che si oppongono ai Borbone e sognano l’Italia unita. Troviamo anche Luigi Settembrini, che dal novembre 1835 tiene la cattedra di retorica e lingua greca nel locale Liceo, fino all’8 maggio 1839, quando su denuncia di un delatore, è arrestato, portato a Napoli, incarcerato, processato e condannato. Settembrini appartiene, inizialmente, alla setta dei “Figliuoli della Giovane Italia”, fondata nel 1832 da Benedetto Musolino a Napoli, dove i due si erano frequentati. È nell’ordine delle possibilità che Settembrini, Ursia, Garcèa avessero stabilito a Catanzaro rapporti personali e “politici”, anche perché rivelano tutti e tre posizioni mazziniane. Francesco Ursia partecipa ai moti del Quarantotto, come Settembrini e Garcèa. Come quest’ultimo, nel giugno e nel luglio 1848, è attivo nel Circondario di Monterosso e nella famosa battaglia dell’Angitola, che vede la fine delle illusioni di rivoltosi, poco organizzati e senza una comune strategia militare e politica. Viene arrestato dopo una lunga latitanza il 18 settembre del 1849. Il 26 novembre 1850 (probabilmente testimoniano a suo sfavore alcuni suoi compaesani) è condannato dalla Gran Corte Speciale di Catanzaro a 19 anni di ferri per attentato contro la sicurezza dello Stato e per aver armato i ribelli contro il Sovrano nel giugno e nel luglio 1848 nel Circondario di Monterosso. Il 30 marzo 1851 la pena viene ridotta a 15 anni.

La sua vicenda incrocia quella di Garcèa. Quest’ultimo, infatti ricorda come al suo arrivo da Napoli nella prigione di Catanzaro (24 dicembre 1850) venga accolto da numerosi amici che lo attendono in prigione e da altri, tra cui Ursia, che da fuori che gli inviano lettere e doni. Dopo la condanna Garcèa (è il 9 giugno 1851) non è più portato nel vecchio carcere con i prigionieri comuni, ma in una prigione nuova (Criminale n. 8), dove come scrive la Bertòla, «trovò Ursia e Fabiani, che gentilmente gli aveano preparato un pranzetto». Solidarietà e sostegno tra prigionieri politici: le memorie e gli scritti dei patrioti sono densi di questi motivi. Ursia parte per la galera quasi un anno dopo la condanna, il 6 ottobre 1851, assieme ad altri 32 condannati, tra cui Garcèa, condannato a 30 anni di ferri duri per ben otto gravi capi d’imputazione.

Giunge a piedi, «ammanettato e maltrattato», sfinito, al Carmine, dopo 17 tappe, compiute in 15 giorni. La partenza da Catanzaro per Napoli, con gli altri condannati e con Ursia, è ricordata da Giovanna Bertòla: «Nel numero della prima spedizione trovavasi pure col Garcèa […] l’Avvocato Francesco Ursia con moglie e due figli e tanti altri che dovettero lasciar persone che più care tenevano al cuore». Il 22 ottobre 1851 Ursia viene trasferito dopo otto giorni a Procida, imbarcato assieme a Garcèa su una “scorridoia”.

Le vicende familiari di Ursia sono tra le più toccanti e anche tra le meno “ricordate” da una certa retorica risorgimentale. Mentre è a Procida perde due sorelle, la madre, una figlia e la moglie, che  «finì di malattia infettiva, forse colera, per cui furono bruciati tutti i mobili e le masserizie di casa, e i suoi tre bambini rimasero nell’abbandono». Notizie di Ursia a Procida ci arrivano dalle lettere scritte alla famiglia da Nicola Romano, suo compagno di catene, nato a Sellia, nel 1805 da Filippo e Teresa Zungroni. Romano si laurea in farmacia, resta qualche tempo a Catanzaro e poi torna in paese, dove non nasconde le sue idee moderate di libertà e di mutamento per gradi. La sua ansia per il mutamento gli provoca la gelosia e la rivalità dei galantuomini del paese. I moti del Quarantotto lo vedono pronto all’azione nei luoghi in cui i compagni catanzaresi avrebbero potuto chiamarlo. Diventa il capo degli insorti di Sellia, ma le sue speranze e il suo entusiasmo si concludono nel dolore con la repressione borbonica che opera in maniera indiscriminata. Condannato il 31 ottobre del 1850 presso la Corte Costituzionale di Catanzaro a 25 anni di ferri, viene portato a Napoli e a Procida assieme a Ursia. E qui, come ricorda Gustavo Valente, comincia il suo calvario, che racconta in trentaquattro lettere scritte, dal 2 dicembre 1851 al 20 settembre 1853, alla moglie, al figlio, al parroco, al cugino Michele Torquato, un proprietario di San Mango d’Aquino, carcerato come lui a Procida e poi trasferito (come Garcèa) a Montefusco, il 7 febbraio 1852, dove muore di colera il 4 novembre 1855. In queste lettere – riunite in un quadernetto di 47 pagine (dato a Valente da Francesco Ripoli, figlio e nipote di patrioti di Celico) – Romano descrive, anche con attenzione letteraria, il mondo della galera, «dipinto con carattere icastici, con una efficacia e un’immediatezza nuove, perché scritte tra le mura del bagno, al cospetto di altri sofferenti, nel caldo e nell’umido di una prigione», tra mille angherie e sotto il pensiero assillante del figli. Lo stesso assillo ha Ursia, che raccomanda a Romano i suoi familiari, «quasi presago della orrenda condizione cui saranno ridotti dopo che la morte della madre per colera e la distruzione delle masserizie li pone fuori casa, soli, piccoli, abbandonati, tali che il padre li rivedrà ridotti in stato quasi selvaggio». Romano parla di Ursia con stima fraterna, a volte adopera espressioni “poetiche”. Nella lettera del 17 febbraio 1852 alla moglie scrive che l’«asprezza della catena è sensibilmente alleviata dalla luce, dalla quiete e soprattutto dalla dolce e cara compagnia d’otto sventurati, fra’ quali ho la ventura di tenere al mio fianco D. Francesco Ursia, che solo sarebbe bastato a convertire in giardino il mio deserto, in ghirlande di fiori olezzanti le ritorte che circondano questa vita infelice».

A Procida Ursia incontra, tra gli altri, Nicodemo Palermo, Antonio Renda, Vincenzo Saccà Plutino, Pasquale Miceli. Nicodemo Palermo (Grotteria 1825-1901) e il fratello Nicola (Grotteria 1826-Siderno Marina 1876), sono figli di Giovambattista (Grotteria 1786-Gerace 1861), capitano di cavalleria nell’esercito napoleonico, che combatte nella battaglia di Waterloo, protagonista del Risorgimento calabrese. Nicodemo, che come il fratello trascorre alcuni anni nelle prigioni borboniche, a Procida realizza un “album” dove raccoglie dei pensieri scritti col sangue (e qui basti accennare all’ideologia del martirio e della “fratellanza”, ai motivi del sangue che fonda memoria, solidarietà, rinascita che caratterizzano la cultura risorgimentale) dai compagni di prigionia a lui dedicati. Nell’album “Care memorie di Nicodemo Palermo: Bagno di Procida”, 1857, Palermo ricorda, tra l’altro le pene e il coraggio del «tenerissimo compagno di guai Nicola Romano». L’album è andato smarrito e, per fortuna, Marco Lupis Macedonio Palermo custodisce religiosamente nell’Archivio di famiglia di Grotteria due volumi di “Memorie della mia vita” di Nicodemo Palermo (1889), un manoscritto prezioso per ripensare l’ambiente, le figure, le vicende dei patrioti calabresi.

Prima della grazia (tramutata in esilio) ai sessantasei patrioti, tra cui Garcèa, Poerio, Settembrini, Castromediano, che poi sbarcano in Irlanda, con la nave David Stewart, Ferdinando II aveva emanato da Foggia un decreto (27 ottobre 1858), col quale, in occasione delle nozze imminenti del Duca di Calabria, riduceva di quattro anni di ferri ai galeotti politici che si trovavano in maggioranza a Procida, probabilmente considerati tra i “non pericolosi”. Il 21 marzo 1859 venivano liberati trentatré prigionieri tra cui Ursia (con la pena ridotta di altri quattro anni, con provvedimento del 10 gennaio 1859); il 6 luglio 1859 (dopo un altro provvedimento del precedente 10 gennaio) è la volta di Romano. Questi torna a Sellia, resta fedele alle sue idee, ma vive con distacco gli eventi successivi e si ritira dalla politica. Ursia, quando viene liberato e inviato a domicilio forzoso, fa «venire presso di sé i suoi figli, sfigurati, sparuti, irriconoscibili dopo tanti anni di strettezze».

Nel Sessanta Ursia viene incaricato dal generale Francesco Stocco (Decollatura 1806 – Catanzaro 1898) – che lo aveva apprezzato durante i moti del Quarantotto e la battaglia dell’Angitola – di organizzare la rivolta nel suo distretto per spianare la strada a Garibaldi. Una vicenda simile a quella di Garcèa, che, di ritorno dall’Inghilterra, viene segnalato da Stocco (con una lettera del 19 maggio) al Comandante Militare di Firenze, il Generale Mezzacapo e poi partecipa all’avanzata dei garibaldini in Sicilia e in Calabria, in Puglia e in Campania. Stocco non si dimentica dei due patrioti sannicolesi, che si erano distinti durante le insurrezioni e gli scontri del Quarantotto.

Nel 1862, Ursia viene nominato giudice, ma dopo qualche anno deve dimettersi per malattia. La prigionia e le disgrazie familiari lo avevano segnato. Posso immaginare la sua sensazione di “amarezza” e delusione, per come sono andate le cose dopo l’unificazione italiana. Questa idea del “Risorgimento tradito”, è comune a tanti patrioti come Garcèa, Palermo, Poerio, Settembrini, Nisco, Stocco.

La sua “libretta”, il suo «povero libro nero», come veniva chiamato, è stato sfogliato da Attilio Monaco, che ne riceve e ne trasmette profonda commozione, anche se non precisa dove l’abbia letto e dove si trovi. Ursia muore il 30 luglio 1894, povero e dimenticato. Non muore nel paese d’origine, almeno da quanto risulta negli archivi parrocchiali e comunali. Con lui termina una intensa storia familiare durata un secolo, “chiude una casa”, scompare da S. Nicola il cognome Ursia anche dalle memorie locali.

Da Augusto Valente sappiamo che il figlio di Ursia, Guglielmo, sposa Amalia Poerio, appartenente al ramo Poerio di Taverna (il cognome Poerio accomuna Garcèa ed Ursia) e che una loro figlia, Isabella, sposa Francesco Ripoli di Celico. Valente ipotizza che il quadernetto di Romano sia arrivato a Ripoli tramite questa nipote di Ursia. Oppure che sia finito in casa del barone Sellia Perrone, che aveva sposato Popa Poerio, sorella di Amalia, cognata pertanto di Guglielmo Ursia. Da una o dall’altra provenienza il libretto giunge in casa Ripoli e poi a Valente. Sono impegnato a leggere le lettere di Romano e a cercare di rintracciare (se esiste) il dolente libretto di Ursia presso qualcuno degli eredi, che mi auguro abbia modo di leggere quest’articolo. La memoria è una costruzione sociale: esiste nella misura in cui viene alimentata; è labile, tendenziosa, selettiva, inclusiva o esclusiva: ubbidisce a strategie identitarie e a “interessi” sociali e comunitari ben precisi. Garcèa e Ursia, con idealità ed esperienze simili, nati nello stesso luogo e nello stesso tempo, conoscono un diverso destino. Certo hanno avuto ruoli e responsabilità, caratteri diversi. Per il primo ha agito, meritoriamente, in maniera positiva e felice, l’organizzazione della memoria; per il secondo è prevalsa una sorta di «dannazione della memoria».

Ursia, certo, resta, allo stato delle ricerche, una frammento di memoria e bisogna essere riconoscenti a Garcèa e ai suoi familiari, a Romano e a Monaco, se il suo nome torna, adesso, come un “rimorso” e un “rimosso”, che meriterebbe altro ascolto. Ho avuto una grande emozione, quando, per una fortunata circostanza sono riuscito a dare un volto a questo nome dimenticato. Il 25 settembre 2011 su “Il Quotidiano della Calabria” pubblicavo un lungo articolo, La dannazione della memoria. Un patriota  dimenticato”. Qualche tempo dopo, il 18 aprile 2014, Christian Ripoli, mi scrive: “Chiarissimo Professore, mio padre (Francesco Ripoli) mi ha girato un articolo che Lei ha scritto il 25 settembre 2011 “un patriota dimenticato”. Anche se non ha mai sentito parlare del “quadernetto” voleva inviarLe una foto del ritratto di Francesco Ursia di cui è in possesso. Francesco Ripoli, farmacista di Spezzano Sila, discendente, con ogni probabilità, di un cognato di Ursia, mi donava la foto di un ritratto che ritrae Ursia “galeotto politico” a Nisida nel 1855.

“Scavando si trova l’acqua, come scrivendo si cerca la via”, scrive Alvaro nel suo Ultimo Diario (1959). Ho pensato che  documenti di archivi pubblici e privati potrebbero contribuire ad assegnare un posto nella storia regionale e locale ai tanti Ursia sconosciuti e magari nella toponomastica dei loro paesi. Senza retorica, ho fissato con emozione il volto di Ursia come se fosse venuto a ringraziarmi per averlo cercato e trovato.

Un risarcimento forse inutile, ma non irrilevante nel periodo in cui i «piccioli luoghi», con la loro avvincente e controversa storia, rischiano di essere chiusi per legge. Le memorie locali sono sacre: vanno custodite e organizzate, anche per la loro funzione di resistenza all’omologazione in atto. Interrogate con rispetto e amore, pensando che milioni e milioni di memorie, luoghi, nomi, saperi, donne e uomini del mondo sono quotidianamente cancellati.

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