C’è questa meravigliosa canzone giovanile di Bob Dylan che si chiama Girl From The North Country, la conoscono tutti coloro che hanno provato almeno una volta a entrare nel mistero di Dylan, non è famosa come Blowin’ In The Wind o Like A Rolling Stone ma è più bella di entrambe, è una canzone scritta da un ragazzo di ventuno anni, forse, che ripensa a un suo amore giovanile e cosa c’è di più divertente, impossibile, a suo modo ridicolo, di un ventunenne che ripensa a un amore giovanile, eppure è una canzone che ti stende fin dalla la prima volta che la ascolti, ti dice delle cose e te le dice all’orecchio, le dice a te, parla di te, parla di lei, dice: se vai a farti un giro lassù nelle terre del nord/dove il vento impazza alla frontiera/parla di me a una che vive lì/perché è stata per davvero un mio grande amore/Assicurati che porti ancora i capelli lunghi fino al seno/ perché è così che la ricordo io/Mi chiedo se si ricorda ancora di me/tante volte, spesso, ho pregato/nell’oscurità delle mie notti, nello splendore dei miei giorni.

L’ho di nuovo sognata, due notti fa, tutta la prima parte del sogno se n’è andata, ricordo solo il finale, quello che mi ha svegliato, ed eravamo io e lei, adesso, tutti e due cinquantadue anni, e camminavamo sottobraccio per le vie di una città e io mi giravo a guardarla, abbassavo lo sguardo e c’era lei al mio fianco e mi sentivo, non so, mi sentivo sostenuto, sollevato, da una grazia magica, e le davo uno stupido bacetto sui capelli e le dicevo qualcosa che non ricordo di preciso, qualcosa come: non so davvero che cosa dirti, guarda, non lo so, sono troppe le cose che ci sono successe e sarebbe assurdo volersele raccontare tutte e sono imbarazzato, non hai idea di quanto sia imbarazzato di essere davvero con te in questo momento, di camminare davvero al tuo fianco, di parlarti davvero con la mia voce e di sapere che la mia voce la stai davvero sentendo, tu non lo sai quante volte ti ho parlato ma ero da solo, sono più di trent’anni che ti parlo almeno una volta al giorno ma sono da solo e invece stavolta tu mi stai ascoltando davvero, siamo davvero io e te, siamo davvero insieme io e te, che camminiamo tenendoci a braccetto, e poi mi svegliavo.

L’avrò sognata almeno cento volte, in trentuno anni ci sono circa 11300 giorni e l’avrò sognata almeno cento volte, se non di più, e sempre mi sono svegliato con quel senso indefinibile di dolcezza e disperazione che ti visita quando sogni i morti, quando sogni tua sorella, tuo padre, tua madre, lo zio andato prematuramente, il tuo amico sbevazzone, quando sogni quelli che sai che non potrai mai più vedere e allora pensi che quello è il loro modo per starti vicino, meglio di niente, però è comunque una mazzata, è comunque un risveglio doloroso, è comunque una presa di coscienza di quanto sia andato a puttane per sempre quel mondo composto e perfetto che è esistito, magari solo nella tua testa, ma che è esistito e non esiste e non esisterà mai più, solo che lei non è morta, lei non è morta, lei c’è, ogni giorno che dio manda sulla terra lei c’è, in questo momento lei c’è, è a casa sua, so vagamente dove abita, in una bella casa su una strada in salita, su una strada in discesa se la prendi dall’altra parte, lei c’è, mancano sei minuti a mezzanotte, è sabato sera, sarà in casa con suo marito, sarà in macchina che torna a casa col marito da una cena fuori, ed è ancora lei, è proprio lei, la stessa persona, ma è come se fosse morta perché non posso sentirla, non posso scriverle, non posso fare niente, posso soltanto pensarla e pensarla e pensarla, immaginarla.

Immaginarla l’ho immaginata così tanto che potrei seriamente averla consumata, non mi stupirei se tutto il mio immaginarla avesse prodotto qualche modifica al suo corpo, non so, una piegolina, una rughetta, una cicatrice sbiadita dal tempo, una decina di capelli bianchi; immaginarla, pensarla, ricrearla sempre uguale a quella che era stata,  questa specie di mantenimento in vita di un fantasma, questa pratica allucinatoria costante nel tempo, incrollabile come la fede in una religione, ha di fatto costituito una porzione considerevole della mia esistenza; non sembra, ma il tempo e le energie che vi ho dedicato in ben più di trent’anni, i viaggi nel tempo che ho affrontato perlopiù quotidianamente semplicemente ricordando, esercitando il muscolo della memoria, le mie passeggiate lungo Memory Lane, tutto questo gigantesco lavoro di evocazione è ormai diventato quantitativamente notevole e non posso non considerarlo parte essenziale della mia persona, del mio paesaggio interiore; è un angolo del mio paesaggio interiore di cui ho gradualmente smesso di parlare con gli amici, gli anni (i decenni sarebbe il caso di dire) sono passati uno dietro l’altro e hanno fatalmente scombinato il quadro degli affetti, cosicché gli amici di gioventù, quelli che sanno della sua esistenza, che hanno vissuto quegli anni con me e lei, con noi, non li vedo più, e agli amici più recenti, quelli della fase matura della vita, non parlo mai di lei, non ne ho il motivo, mancano le basi per farne argomento di conversazione o confessione; esiste dunque un continente intero, dentro di me, che esiste, che visito regolarmente, e di cui nessuno sa niente. 

Un’ossessione, se ben gestita, non fa male a nessuno, nessuno si fa male per una semplice ossessione, basta sapere di che cosa si tratta e ormai io lo so di che cosa si tratta, in trentuno anni le fasi dell’ossessione le ho passate tutte almeno dieci volte, mai nello stesso ordine, sempre a caso, rabbia, sgomento, rifiuto, serena accettazione, lutto, lutto, centomila volte lutto, non fa male a nessuno, non le do molto peso, la mia è un’ossessione talmente radicata che ormai la saluto con un occhiolino quando mi risveglio col sole, altre ossessioni, altre donne, mi hanno spinto a gesti di cui ancora non mi capacito e poi sono svanite senza lasciar traccia, questa ossessione posso dire con certezza che non mi abbandonerà mai e che non mi farà mai del male così come non farà mai del male a nessun altro.

Nella benedetta primavera del 1982, a marzo, la vedo per caso nell’altra sezione, da settembre a marzo non l’ho mai mai mai notata, un mattino la vedo, lei vede me, incrociamo gli sguardi, io sono sulla soglia della porta della sua classe, lei accanto al suo banco, sta in piedi, in mezzo alle altre, la vedo e non so ancora adesso che cosa vedo, perché vedo quello che vedo, la vedo e mi sento completamente ribaltato, lei vede me e sposta subito lo sguardo, non mi ha nemmeno notato, mi ha solo visto, nemmeno guardato, io ho quindici anni da qualche giorno, lei quattordici e mezzo.

Cosa c’è di autentico negli anni dell’adolescenza, mi chiedo adesso che sono un ex giovane, ex ragazzo, ex promessa, ex tutto, cosa resta di reale una volta sbucciate via le pose, le invenzioni macabre, le nozioni origliate, le travagliate situazioni in progress, cosa resta, cos’è il nucleo, dopo tutto, di quegli anni? Non so rispondere, giorno dopo giorno sono arrivato dove sono arrivato e ancora sembra non essere finita, la verità è che a guardarsi indietro la linea dell’orizzonte che sta alle spalle è sempre lì, uguale a se stessa, sembra non essersi mossa di un millimetro, difficile esprimere alcunché di sensato, come per tutto del resto, come per tutto il resto, devo fare uno sforzo per prendere atto con “serenità”, tra molte virgolette, dei quarant’anni che mi separano da certi avvenimenti, dei quasi quarant’anni che mi separano da altri avvenimenti, dei trent’anni, dei venticinque e venti e poi quindici e dieci anni che mi separano da ancora altri avvenimenti, l’accumulo di tempo non riesco a sentirlo davvero, la mente è prodigiosamente incapace di accettare qualsivoglia verità oggettiva, ho (forse tutti abbiamo) il dono negativo dell’illusione permanente, il grafico che illustra che ormai la fine è vicina, che i tre quarti del mio (e di molti altri) soggiorno sulla Terra sono archiviati, non è sufficiente a far crollare l’illusione perché, appunto, trattasi di illusione permanente, non saprò mai rispondere alla domanda su quanto c’è o c’era di reale negli anni dell’adolescenza, alla domanda sulla persistenza di quei noi stessi di allora, il corpo, quello esteriore e soprattutto quello che sta dentro la corazza, il complesso e misterioso macchinario, il sistema di scambi e semafori rossi e verdi delle vene, delle ghiandole, quello rende netta la distanza da quei noi stessi che siamo stati, ma l’illusione permanente non teme nemmeno le batoste del corpo che muore e ogni giorno muore con più forza ed evidenza, con sempre maggior carattere e convinzione.

Il tempo è il più grande dei misteri. Più invecchio e meno vivo il presente, il presente assume anzi le sembianze di un continuo daydreaming. Le tonalità di luce delle giornate trascorse a casa a lavorare mi rimandano regolarmente indietro di decenni, ritrovo sempre l’esatto colore del cielo di momenti rimasti impigliati nella memoria, e se non è il colore del cielo è la luna piena nelle gelide notti di dicembre o il sole agonizzante dei tramonti di luglio o ancora la pioggia delle domeniche di marzo e il suo bianco e nero. Sembra sempre la scorsa settimana, sono passati venticinque, trenta, quarant’anni, lo sgomento non riesce nemmeno a concretizzarsi, manca proprio l’appiglio, non ho i mezzi per capire come funziona il mio cervello nei confronti di questa cosa, nei confronti del tempo, della sua elasticità. 

L’ho rivista diciotto anni dopo, una mattina di sole di settembre, il giorno prima del funerale di mio padre, diciotto anni dopo, diciotto anni, la matematica non lascia scampo, diciotto anni senza vedersi, senza sentirsi, senza scriversi e poi muore mio padre, io che telefono a suo fratello per dirgli di dirle che era morto, pensavo fosse giusto dirglielo, quand’era morta sua madre ero stato avvertito ma erano passati tutti quegli anni comunque, dalla morte della madre, forse non proprio diciotto, più facile che fossero sedici, che importa, lei era sparita, era stata inghiottita, eliminata, viva solo nella memoria e per il resto morta, come se, il come se meno opinabile di tutti i come se, quando non vedi e non senti una persona per mesi e poi anni e anni, quella persona è morta anche se è viva, o meglio vive nei ricordi e basta, esattamente come quelli che sono morti per davvero, e l’ossessione non aveva dato segni di stanchezza, era sempre in ottima forma, per lunghi tratti riposava ma era pur sempre dentro di me, era me, come erano me altre decine di pensieri ricorrenti, stati d’animo, automatismi, fobie, canzoni, gradazioni di colore, l’ossessione prospera soprattutto in assenza, si alimenta e si fortifica in assenza, a un certo punto anzi si stabilizza e pare resistere soltanto in assenza, l’ipotesi di una non-assenza svanisce, entra a far parte del magico e del soprannaturale, del mitologico, dell’allucinazione, del delirio, dell’invenzione pura, della fiction, l’assenza è e basta, l’assenza viene alfine accettata come condizione immutabile (lei è morta), (come se), e le rare rarissime volte che la condizione di assenza è stata violata, tre o quattro in più di trent’anni, sono stati più i danni dei benefici a rivelarsi in seguito, un’ossessione tenuta a bada ha bisogno di esistere uguale a se stessa senza turbolenze, l’ho rivista che mio padre era disteso in una bara refrigerata nel salone di casa, settembre appena iniziato, ancora quel caldo estivo che persiste uguale ad agosto e a luglio, era disteso irriconoscibile, un mucchietto d’ossa tenute insieme da quella sua pelle bianchissima e senza peli, dopo pochi minuti che ho finito di parlare con suo fratello mi suona il telefono ed è lei, mi manca il fiato, è lei davvero, mio padre è morto, è nel salone morto da ieri e io sono felice come non ricordo di essere mai stato, è lei davvero, mia sorella capisce, mi fa dei segni, mima il suo nome con le labbra senza emettere suoni, io annuisco, esulta a braccia alzate, mia madre per fortuna non vede niente, esco sul terrazzo, fa ancora caldo, parliamo molto, anche di futilità, lei confessa di essere ormai bionda da tanto tempo, io protesto, per me lei è castana, non esiste una lei bionda, protesto con veemenza esagerata, ridiamo, e ci diamo un appuntamento segretissimo in una città neutrale, né la mia né la sua, una città a metà tra la mia e la sua, che poi non possiamo dire città senza farci scappare un sorrisetto, la nostra storia non è quasi mai stata una storia di città se escludiamo Genova, l’appuntamento segretissimo ha luogo in un paese, il paese di mia madre, lungo il torrente Belbo, un paese di negozianti e sprovvisto di classi sociali rigide, così vicino eppure così lontano dal paese mio e di mio padre, un paese di imprenditori provvisto di e anzi fondato su classi sociali rigide, e la questione delle classi sociali ha grande peso in questa storia, in questa ossessione, classi sociali che, viste adesso e da qui (Milano), appaiono finalmente in tutta la loro risibile inconsistenza, e ci diamo appuntamento sotto i portici, i lunghi portici della via maestra, con una vaga idea di orario e una più vaga ancora idea di luogo, i portici, i lunghi portici della via maestra, potrebbe essere il lato destro o il sinistro, il luogo dell’incontro, o il segmento più vicino alla piazza grande o quello più vicino agli argini del torrente, non vogliamo dirci niente di definitivo, decidiamo di incontrarci come per caso, come se non ci fossimo dati nessun appuntamento segretissimo.Dunque l’ho rivista diciotto anni dopo, forse sedici, sedici anni dall’ultima volta, ma non importa, è uguale, quello che importa è che, calcolatrice alla mano, dopo tre anni di vita sempre insieme, da un momento all’altro ci siamo salutati e ci siamo persi vicendevolmente, io ho perso lei e lei ha perso me, non proprio nel momento in cui lei ha deciso di lasciarmi perché ci sono stati piccoli strascichi, ci siamo fatalmente incontrati in facoltà, ci siamo baciati ancora qualche volta a cose fatte, lei stava già con il suo attuale marito, qualche bacio, qualche incontro meno occasionale di altri ma poi è arrivato il momento di prendere atto che era finita e da lì in poi il nulla, sono passati giorni e mesi e poi anni a mazzi, fino ad arrivare all’incredibile numero di sedici o diciotto, quasi venti, una quantità d’anni che dovrebbe avere qualche significato, una quantità d’anni che dovrebbe annullare tutto quanto, dovrebbe cancellare, radere al suolo, disintegrare, nebulizzare, atomizzare tutto, anche il minimo ricordo, la più piccola emozione, una quantità d’anni che dovrebbe essere sufficiente a trasformare in gioco da ragazzi qualsiasi storia sentimentale, una quantità d’anni che dovrebbe sradicare la memoria e renderla freddo museo delle cere, la rivedo quando muore mio padre, appuntamento segretissimo, io con una confusione in testa che mi stupisco di essere in grado di muovermi in mezzo alla gente senza sbattere, lei è dietro di me, io percorro i portici facendo finta di non essere nervoso ed emozionato, cammino tutto strano come cammino io, i piedi buttati all’infuori, le mani in tasca, le spalle curve, giro la testa a destra e sinistra e non la vedo, mi dico: tranquillo tra poco arriva, tra poco arriva, tra poco è qui e anche io sono qui, tra poco arriva, arriva lei, lei, com’è possibile dato che è morta, come se, arriva, tra poco la rivedo, ma poi non la vedo mica, cammino e non c’è, non c’è perché è alle mie spalle, chissà quanto è rimasta lì a guardarmi camminare, chissà se ha aspettato qualche minuto che mi voltassi ma io non mi voltavo, continuavo a percorrere i portici in linea retta e non la vedevo, poi mi è vibrato il telefono in tasca, un sms da lei, l’ho letto, girati, diceva l’sms, girati, mi sono girato, e lei era lì. Castana

Previous ArticleNext Article